Cultura: Britten, fascino maledetto



«Il giro di vite» alla Fenice di Venezia

Uno dei titoli più celebri dell’immensa raccolta narrativa di Henry James è la lunga novella The turn of the screw, Il giro di vite (1897). E lo è non soltanto per il suo valore, tuttavia minato da continue procrastinazioni, lentezze, inoffensive ambiguità, ma anche perché Benjamin Britten ne trasse nel 1954 uno dei suoi capolavori, eseguito l’anno stesso al Festival di musica contemporanea di Venezia, e per la precisione al Teatro La Fenice. Questo teatro, nonostante il Festival personale di Benjamin Britten che si teneva ad Aldeborough, è sempre parso la sede naturale per l’Opera maledetta, e ogni ritorno di essa lì può essere un eccezionale avvenimento artistico. L’ultima edizione è di questi giorni ed è diretta col massimo della raffinatezza e competenza da Jeffrey Tate, mentre l’allestimento, in gran parte deludente, si deve a Pierluigi Pizzi.

Dico Opera maledetta perché maledetta è anche la novella di Henry James, nonostante le reticenze proprie dello scrittore. È la storia di una coppia di adolescenti, fratello e sorella, orfani, che lo zio-tutore relega in un’immensa tenuta di campagna: un’istitutrice viene incaricata di badare a loro assumendosene ogni responsabilità, a condizione di non disturbare, nemmeno di tenere informato il tutore qualsiasi cosa sia per accadere. I due bimbi sono incantevoli e l’incarnazione stessa della sorridente bontà. In realtà sono anime dannate, che avevano avuto osceni rapporti con il maggiordomo, il ragazzo, con la precedente istitutrice, la bambina. Non si comprende se i fratelli, visto che i loro passati corruttori (o da loro corrotti?) sono entrambi morti, li evochino, come io sono portato a pensare, o assistano consenzienti alle apparizioni delle creature senza pace. La defunta istitutrice vuole la bimba per condividere con lei il suo dolore senza fondo: è credenza che le anime dannate ricevano un alleviamento alla loro pena se riescano a portare altri consorti all’Inferno. Il cameriere vuol protrarre su scala metafisica i rapporti pederastici avuti col ragazzo tredicenne. Il tema coinvolgeva direttamente la natura di Britten, che per il servitore Quint scrive le sue pagine vocali più belle nell’Opera. Se si pensa poi che il primo interprete del ruolo sia stato il grande tenore Peter Pears, il suo compagno di una vita....

Ecco perché mi sembra che il primo punto di svolta rispetto a Henry James sia la straordinaria arte dell’autrice del poema drammatico, Myfanwy Piper. Basta leggere che cos’ella metta in bocca al fantasma alla prima evocazione: «Sono tutto ciò che è strano e audace/ un cavallo senza cavaliere/ che sbuffa e scalpita sulla dura sabbia del mare./ Sono re Mida dalle mani dorate. (...) Sono la liscia contraddizione del mondo,/i talloni di Mercurio/piumati di malvagità e dell’inganno di un dio./La fragile lusinga del falso./ In me si incontrano segreti e desideri incompiuti./(...)Sono la vita nascosta che si agita quando la candela si è spenta;/ su e giù, i passi uditi appena/ il gesto sconosciuto, la parola persistente,/il volo a lungo sognato dell’uccello notturno». Il Quint del primo Miles, David Hemmings, fu proprio Britten; cresciuto che fu, Hemmings divenne un acclamato divo cinematografico. Nel finale il ragazzo, su impulso fortissimo della nuova istitutrice, discaccia il servo: il suo cuore si spezza e cade morto. Anche questa morte va interpretata, se ricompresa nell’atto del rinnegamento: contro natura, la natura infernale di Miles.

Britten è particolarmente versato nel dramma. Poca meraviglia dunque se la sua partitura, che doveva suonare modernissima benché sostanzialmente tonale, nel 1954, suoni modernissima ancor oggi. L’orchestra è composta di soli tredici professori, con una parte virtuosistica per le percussioni. Dalle più delicate tarsie solistiche a momenti di corrucciata esplosione, tutto avviene in quest’ambito. Le strutture formali più rigorose, con esplicito omaggio a Berg, si sovrappongono al senso drammatico. Quindici brevi Interludî sono in forma severa e contrappuntistica di Variazione; ma tutta l’opera è un rigoroso sviluppo di un motivo principale di dodici note, senza che però vengano applicati i principî costruttivi dodecafonici.

La coppia di fratellini, specialmente Miles, dev’essere per definizione di voci bianche di altissimo livello: come Miles, Peter Shafran, è. Ho già osato dire che il Quint di Marvin Miller non fa rimpiangere quello di Peter Pears (tutto però sta nella dimensione teatrale, flaccida a Venezia questa volta). L’appassionata istitutrice è Anita Watson, la plorante Jessel è Allison Oakes, l’ingenua Grose è Julie Mellor. Teatro pieno e, ovviamente, grande successo.

Paolo Isotta



http://www.corriere.it/cultura/10_giugno_29/elzeviro-isotta-britten-fascino-maledetto_d0588b8e-8353-11df-aec8-00144f02aabe.shtml

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