Fotografía: I fotografi che volevano cambiare il mondo

Shoeshine Boy with Cop, 14 th Street N. Y. di Morris Engel© Estate of Morris Engel 

Gli aderenti alla Photo League raccontarono l'America degli Anni 40. E New York è tornata a celebrarli

VIVIANA BUCARELLI 
NEW YORK



«Una fotografia non è il surrogato di uno sguardo. È una visione più precisa e tagliente. È la rivelazione di fatti nuovi ed importanti», diceva Sid Grossman durante le sue lezioni alla Photo League, una piccola organizzazione che ha avuto però grande nella storia della fotografia. Tra il 1936 e la fine degli anni '40 infatti, alcuni tra i più grandi fotografi e fotogiornalisti del tempo tra cui Paul Strand, Eugene Smith, Aaron Siskin, Berenice Abbott, Margaret Bourke White e Lisette Model contribuirono a fondare o fecero parte di questo gruppo che credeva nel potere rivoluzionario della fotografia documentaristica e nella sua forza espressiva capace di cambiare la società. E alla Photo League, il Jewish Museum di New York ha da poco dedicato una mostra e un monumentale libro-catalogo con oltre 150 foto, alcune delle quali diventate icone di quegli anni.

Il gruppo di fotografi appartenenti alla League era caratterizzato da personalità del tutto fuori dal comune. Tra i fondatori insieme con Sol Libsohn, c'era Grossman, il professore dal carattere difficile e dai modi aspri che trasmetteva una visione personale della fotografia: «the world is a picture», diceva sempre, come ricordano ancora i suoi ex-studenti. Membro del direttivo era anche Margaret Bourke White, prima tra i fotografi stranieri ad avere il permesso di scattare immagini in Unione Sovietica, la prima donna corrispondente di guerra e la prima donna fotografa per Life magazine. Fu anche la prima ad entrare a Buchenwald il giorno dopo la liberazione dei prigionieri.

Eugene Smith leggendario reporter di Life, nel 1947 al suo ritorno dalla II Guerra Mondiale entrò a far parte della League e ne fu anche presidente. Fece parte del direttivo anche Paul Strand teorico della fotografia d'impegno politico e sociale. I membri della League arrivarono ad essere centinaia: fra gli altri Lou Berstein, Bernard Cole, Robert Disraeli, Consuelo Ganaga, Arnold Newman e Walter Rosemblum. «Li accomunava la fiducia negli ideali socialisti degli Anni 30 e nell'arte come portavoce di questi ideali» spiega Mason Klein, che ha curato il libro e la mostra. «Per questo rifiutarono lo stile modernista del tempo e vollero affrontare la dura realtà della vita urbana».Molti di loro erano emigranti di prima generazione che arrivarono a New York nel periodo della Depressione e «i loro valori furono forgiati dall'idea che il loro lavoro contasse sul serio e potesse cambiare le cose».

I Leaguers concentrarono la loro attenzione in modo particolare sulla città di New York, sui quartieri più poveri, quelli degli immigrati, ebrei, italiani, irlandesi, come il Lower East Side, la Bowery, o Harlem, esclusivamente nero, e ne ritrassero le strade con i loro protagonisti. Ma raccontarono anche l'America povera e rurale negli anni tra la Depressione e gli anni '40 e, durante la Guerra, anche alcune città dell'Europa e dell'America Latina. Immortalarono le panetterie italiane, i ristoranti che vendevano gli spaghetti per 25 cent a porzione, i lustrascarpe ragazzini, le diverse facce della povertà che si aggiravano per le strade di quei quartieri, così come la miseria degli interni delle case dell'epoca, sia a New York che in alcune zone rurali dell'America, le prime proteste per i diritti sindacali degli operai, ma anche le donne che chiacchieravano a gruppetti mentre spingevano le carrozzine, l'allegria dei bambini che giocavano davanti agli ingressi delle case, il ballo al ritmo di una musica trascinante nei club di Harlem e la banda del quartiere che suonava agli angoli delle strade. Tra i progetti documentaristici più importanti ci furono l'Harlem Document Project di Aaron Siskin, il War Production Group di Sid Grossman e Battery Park di Arthur Rothstein.

Ma la League divenne anche una scuola, quella più a buon prezzo del tempo. E, in un certo modo, anche un salon, un punto di ritrovo e di riferimento. Mise a disposizione degli studenti una camera oscura e uno spazio espositivo. Contribuì in quegli anni a conferire dignità artistica alla fotografia, ospitò una ampia varietà di insegnanti temporanei e presentò le loro mostre, tra cui quelle di Wegee, il paparazzo della vita notturna, del crimine e dei fatti di sangue, così come dell'aristocratico Cartier Bresson e di Edward Weston.

Ma il 5 dicembre del 1947, in pieno Maccartismo, il Procuratore Generale inserì la Photo League nelle liste nere come organizzazione ritenuta «totalitarista, fascista, comunista o sovversiva». Sotto choc, i membri della League risposero con una lettera aperta, in cui dicevano, "La Photo League ripudia questa irresponsabile e sconsiderata calunnia riguardo i propri obiettivi e la propria attività … promossa dalla "House for the Un-American Activities Committee" per soffocare il pensiero progressista in ogni settore e per intimidire attraverso la minaccia coloro che lavorano in ogni campo della cultura». Far parte ufficialmente delle liste nere significava per i membri della League non solo perdere la propria reputazione ma ogni possibilità di proseguire in quel momento con il proprio lavoro, subire un'investigazione e la prospettiva di un processo e di una possibile condanna. La situazione poi peggiorò ulteriormente nel 1949 quando Angela Calomiris, una informatrice pagata dall'FBI e membro della League, additò Sid Grossman come «omunista» e la League come organizzazione militante. Il fatto poi che la maggior parte dei componenti della League fossero ebrei non agevolò certo la situazione. «Era naturale che venissi definito comunista perché ero ebreo. Avevo l'aspetto dell'ebreo e vivevo a New York City. Venivo naturalmente preso per comunista», commentò all'epoca Aaron Siskin.

Erano trent'anni che non si parlava della League: il libro-catalogo e la mostra li hanno rilanciati. «Venivano considerati un gruppo di sinistrorsi vecchio stile, un marchio che ha contribuito a farl icadere nell'oblio» conclude Mason Klein.






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